Ad un certo punto inizi a diventare abitudinario.
Stessa compagnia, stesso programma, stesso posto.
Ma che male c’è se a priori sai già che ti divertirai?
Ad un certo punto inizi a diventare abitudinario.
Stessa compagnia, stesso programma, stesso posto.
Ma che male c’è se a priori sai già che ti divertirai?
E poi ti svegli la mattina e pensi che aver fatto le 20.30 di ieri in ufficio da solo a sentire Sheryl Crow su Spotify, aspettando che Final Cut finisca di esportare quella manciata di video appena montati, non è così tanto male.
Soprattutto pensi che oggi e domani sei in ferie.
Mi è capitato di ritrovare la lettera di Gabardini apparsa su Repubblica a fine ottobre 2013 dopo la diffusione della notizia del suicidio di un ragazzo gay a Roma.
La ricondivido perché certe parole è sempre belle (ri)leggerle.
Caro ragazzo gay, o bisex, o indeciso o boh, la vita è durissima, spesso è uno schifo, ma la propria identità sessuale non può mai essere un motivo per deprimersi, farsi del male, uccidersi. Scusami se ti scrivo, ma io ho bisogno di dirti una cosa: essere gay è bellissimo. Non è una colpa, non è un atteggiamento che uno sceglie, è normale tanto quanto non esserlo. Ma la cosa che nessuno dice mai è che essere gay è anche bellissimo. Poi a me sta bene che chi pensa che l’omofobia sia il problema, lotti per combattere l’omofobia, foss’anche solo per un motivo simbolico e per accendere i riflettori sulla questione. Ma se tu finalmente ti convinci di essere nella tua squadra del cuore, la più splendente perché meglio definisce i tuoi gusti sessuali, beh, allora che ti frega che — quasi sempre per invidia — quelli di altre squadre ti prendano in giro? Se sono dell’Inter e un milanista mi urla «nerazzurro di merda» io me ne faccio un vanto e magari gli rispondo pure «dimmi, pallosissimo etero!». Poi, ovvio, se vuole menarmi e magari sono pure più di uno, scappo, e se mi fanno del male o anche solo minacciano di farmelo, sporgo denuncia. E non sto dicendo che bisogna subire passivamente, però la questione è che non mi lascio deprimere o far venire dei dubbi, non mi lascio convincere che quello sbagliato sono io, che quindi debba punirmi e possibilmente strapparmi di dosso questa brutta cosa o ammazzarmi. Ma neanche per sogno. E sai perché? Perché essere gay è bellissimo, c’è da metterselo in testa. E poi, rimanendo in metafora, se capisci che fai parte di una squadra, capisci anche — ed è importantissimo — che non sei da solo. C’è stato un tempo antico e pure lunghissimo in cui l’omosessualità non era assolutamente un problema, credo che nemmeno se ne parlasse; poi ci son stati secoli bui e buissimi di oscurantismo, arresti, lotte, morti, e battaglie vinte, e passi indietro, e leggi terribili e pena di morte, e tutto ciò in realtà dura tuttora in troppi luoghi. Però nel 2013 c’è una certezza che nell’intimo nessuno può misconoscere: essere gay o eterosessuali è assolutamente la stessa cosa. È come dire biondo, castano, alto, magro, sportivo, tutte quelle cose che ovviamente fanno parte di noi, ma nessuna di esse presa singolarmente ci definisce del tutto. Ovviamente troverai chi ti dice che le bionde sono stupide e i mancini subdoli, come sicuramente troverai anche degli etero che ti dicono che i gay fanno schifo, e incontrerai dei gay che ti ammoniscono che andare con le donne sia orribile e pericolosissimo, ma sono frange estreme ignoranti, sono slogan da tifoserie, niente che debba preoccuparci davvero. Quando sento qualcuno farneticare dicendo che l’omosessualità è una malattia, la mia prima reazione non è mai violenta o depressiva, piuttosto è la stessa identica che avrei se sentissi qualcuno dire «l’obesità è infettiva» o «masturbarsi rende ciechi»: mi vien da ridere, mi fa pena chi dice queste cose, giuro, mi chiedo dove abbia studiato, mi interrogo se posso aiutarlo in qualche modo e di solito gli sorrido come a un povero scemo, poi se mi va cerco pure di spiegargli che sta dicendo delle stronzate piuttosto umilianti, ma intendo umilianti per lui. Se invece dopo le parole stupide di uno stupido vado a casa a piangere, e penso che farmi del male possa in qualche modo curarmi da questa terribile malattia che è «amare chi amo ed essere quello che sono», sto facendo il gioco dello scemo, e così lui non capirà mai che quello che ha bisogno di essere curato è lui, e penserà addirittura d’aver vinto. Io non ripongo nessunissima speranza negli omofobi, perché sarebbe come chiedere un consiglio a un sacchetto di carta o un bacio a un kiwi. Io vorrei che queste morti più che gli omofobi scuotessero tutti noi non-omofobi a dire tranquillamente che essere gay è bellissimo, stupendo, perfetto. Perché il problema sono i nonomofobi che comunque, spesso inconsciamente, continuano a pensare e far proliferare l’idea che essere gay sia un problema, una colpa, una tragedia, una questione spinosa di cui occuparsi. Non è così. Non per forza. Essere gay è almeno tanto bello quanto non esserlo e essere dell’altro. Anche perché io penso che nella scala fra totalmente eterosessuale e totalmente omosessuale ci siano infiniti gradi. Anzi, penso che ci siano tanti gradi quanti gli abitanti di questo pianeta meno uno, se stessi: perché ci si innamora di un essere umano, non di una sessualità . Io mi innamoro di Alessia, di Salvatore, di Caterina, di Dario, di Elena, di Cezanne, di Monet, di Gadda, di Philip Roth, di Tondelli, della Munro, non delle donne o degli uomini, non dei pittori o delle pittrici, e neppure degli scrittori o delle scrittrici. Ma ve lo immaginate nascere in un posto dove ti dicono: tu puoi amare solo le musiciste donna oppure i tabaccai maschi? Non è così. Ci si innamora di chi ci s’innamora. Punto. Io della mia omosessualità non parlo mai perché penso che non sia una notizia. Ma se la non-notizia di esser gay, nel momento in cui viene dichiarata da tutti i gay, può salvare anche solo un ragazzo dal proprio proposito di suicidio, beh, allora lo dico: io sono gay. E come dice una mia ex fidanzata, è anche per questo che sono adorabile.
Ho deciso che non voglio più dei lunedì come quello appena concluso, grazie.
Centocinquanta vuol dire cinque mesi.
Cinque mesi vuol dire che è passato quasi mezzo anno. Eppure sembra ieri quando pensavi che non sapevi come avresti fatto vivere così, dopo quello che era successo.
Cinque mesi vuol dire che ce la puoi fare e che il tempo sembra anche passare velocemente, nonostante tutto.
Cinque mesi però vuol anche dire che è il caso di dare una botta di vita a questa routine e di fare qualche pazzi… ehm… cambiamento.
La Domenica è quel giorno in cui programmi un sacco di cose.
E poi non ne fai neanche una.
E così gennaio è andato.
Un mese strano, in cui però hai tentato di riprendere il controllo sulle spese folli, evitando di comprare videogiochi, bluray, Swatch, tentando di prendere il treno o per lo meno evitando di parcheggiare a Lampugnano e uscendo al casello prima per parcheggiare a Fiera.
Un mese in cui hai mantenuto quella promessa fatta a V., per il bene del tuo conto in banca (e del tuo futuro?).
E ora c’è solo da continuare così.
D’altronde, anche Zio Paperone aveva iniziato con un semplice Nichelino, giusto?
Ho imparato a mie spese che ci sono tantissime domande da non fare.
Una di queste è “ragazzi, vi serve una mano?”. Sopratutto se pronunciata alle 18.30 del venerdì. Perché è una di quelle domande che ti potrebbe svelare un intero universo di cose ancora da fare, entro ieri.
E ha il potere di farti sembrare quella cena delle 21.30 maledettamente presto.
E quel giovedì che volevi tanto fosse un venerdì è finito.
E hai anche il coraggio di guardarlo con un timido sorriso, perché fortunatamente non è stato un giorno così delirante come avevi calcolato. Le cose sono filate lisce, sei riuscito a realizzare quello che avevi in mente al primo colpo e con soddisfazione.
E poi dovevi arrivare qui da noi, per una cena nel tuo ristorante preferito di Milano, con due dei tuoi amici preferiti e sei anche riuscito a perderti con Google Maps aperto e ad affogare in una pozzanghera talmente era profonda.
Avanti così, Lore!