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Tic tac

È che a volte mi disinteresso del Mac, mi accorgo che la vita reale non è un telefilm.
E mi rendo conto di cosa stia facendo. O meglio, di quello che non stia facendo. Perchè ora, con le lezioni, ho un sacco di tempo libero. Buttato praticamente via. La notte davanti al computer, la mattina nel letto e il pomeriggio a lavoro. E ci sono tante cose da fare, importanti, che mi trascino dietro da troppo tempo e che non ho ancora fatto.
Ho passato una brutta settimana. Brutta perché non ne ho ricordi. Non è successo nulla, non ho fatto nulla.
Potevo stare un po’ più vicino alle persone a me care. Ma no. Potevo magari provare a sentire i compagni di uni, ma no, non ho fatto neanche quello. Cogliere l’occasione per prendere, uscire, fare un giretto, scattare qualche foto. No, nulla di tutto questo.
E mi son fermato a pensare.
Cos’è quindi la mia vita?
Ora ho addosso una strana sensazione. Come se io fossi un estraneo. Estraneo da tutto, estraneo da me.
E non mi piace, non mi piace per nulla.

Nostalgia

Ok. E’ questa è stata l’ultima del 2008. E non ho voglia di altre nel prossimo anno.

Sono stutfo, stufo, stufo.

Stufo delle vostre belle parole. Ve le ricordate? Quelle vostre belle parole dette quel giorno, in montagna, immersi nel verde, nel silenzio, sotto quel fienile mezzo diroccato, con uno spelindino sole che giocava a nascondino tra le nuvole?
Beh. Ora come ora le definirei delle belle false parole.

Ancora una volta sempre i soliti discorsi. E non ce la faccio più. Perché io l’ho detto. L’ho detto cos’è che non mi era andato bene. Ho detto quello che mi aveva fatto stare male, male, male, MALE.

Eppure ho l’impressione che non mi avete ascoltato. O ve ne siete fregati, perché il vostro orgoglio è più forte di ogni altra cosa.

E anche oggi. Detto, ridetto. E a distanza di 2 minuti, dite che non avete capito, cosa vi chiedo. Che non avete capito cosa mi ha bloccato, ancora di più.

Perché sembra che non lo abbiate capito. Nell’idea di proteggermi e proteggervi, mi sono chiuso in me stesso. Per anni e anni. E, insomma, aprirsi è veramente difficile. E anche questo, l’ho detto e ridetto e non lo avete ancora capito.

E’ successo il patatrac. Ci sono state le belle parole, le crisi, i pianti, le gite della bella famigliola contenta. Io ho tentato di fare dei passi, con tutta la difficoltà del caso. Tutta la difficoltà di affrontare la situazione. Voi dite di non averne visti. E continuate a chiedere passi, passi, passi e ancora passi.

Ma voi, ne fate?

Ho sopportato le vostre tremende parole nei miei confronti, nei confronti di chi amo, nei confronti di chi apprezzo e rispetto.

Ma non posso sopportare le parole del fattaccio. Quelle no, non le posso accettare.

Ed è da quelle parole che è derivata l’ennesima chiusura.

Però no, io mi fisso, guardo al passato e non voglio guardare avanti.

Ma come guardare al futuro e sperare in qualcosa di meglio con una famiglia che mi dice che non accetta quello che sono e non mi accetterà mai? Come faccio a guardare al futuro e sperare in qualcosa di meglio con una famiglia che non reagisce, una volta detto che queste parole mi hanno fatto stare male, male, malissimo e che mi sarei almeno aspettato qualche frase diu circostanza, del tipo non lo pensavamo veramente/ero arrabbiata/scusami, mi dispiace?

E vi ringrazio, per il bellissimo modo in cui mi state facendo passare le ultime ore di questo 2008.

E ora, vado a cancellare il post programmato per la mezzanotte. Che no, non sono più allegro felice contento e spensierato.

E se mi dovesse succedere qualcosa, non vi preoccupate. Lo scoprirete da qualche telegiornale, come tutte quelle povere famiglie con dei figli disgraziati, che se ne vanno in giro la sera, fumano, bevono, si drogano e si incidentano.

Carattere

È che a volte non mi capisco, né mi piaccio. Per nulla. Per come mi comporto, per come agisco, per come mi sento poi e per quell’inutile senso di orgoglio che in realtà non mi porta da nessuna parte.

È che mi arrabbio, per cose che prima mi facevano ridere o sorridere. Però dette una, due, tre, quattro, cinque volte, dopo un po’ non mi divertono più. Per nulla. Mi innervosiscono. Perché per quanto voglia apparire come il bambinetto giocoso viziato stupido e rompiscatole, in realtà non lo sono. O se lo sono veramente, non voglio essere così. Per nulla.

E non so perché, ma mi infastidisce l’uso di questa mia autoironia da parte di altri. E l’indice secondo cui l’uso diventa abuso, quindi insopportabile, è troppo, troppo ristretto.

Poi non sopporto per nulla i ritardi. Ma proprio zero. Il che è abbastanza ipocrita, visto che io molto spesso ritardo. E qui, ovviamente, nel ragionamento parte l’autogiustificazione. In virtù del fatto che spesso, ci sono impedimenti esterni quando sto tentando di uscire di casa o che, bene o male, in caso di eventi importanti (lavoro?), appuntamenti combinati particolarmente complessi o particolarmente lontanti, tento sempre di ridurre ad un margine tollerabile il ritardo.

E poi boh.

Che forse sia il Natale che si avvicina e l’ipocrisia di fondo che aumenta e diventa sempre più preponderante che mi infastidiscono e mi rendono così intollerante alle sciocchezze?

Mi sa che è meglio dormirci sopra

Questa mattina

Ok. E’ successo. E credo che ormai ho già i ricordi confusi. Non so più cosa è successo prima o dopo.

Però è successo, dopo un risveglio un po’ così. E mentre stavo premendo il tasto publish dell’ultimo post, è iniziato tutto.

Perchè, come al solito, pensavo prima al mondo che ai miei genitori e poi, insomma, chissà a chi cavolo stavo scrivendo. Ed è iniziata la solita pappardella-monologo della madre.. che sono preoccupati, che non mi capiscono, che sono cambiato, che frequento brutte compagnie, che li ho coperti di bugie (e che loro non sono scemi e hanno capito tutto) e hanno iniziato col solito gioco del “c’è qualcosa che mi dovresti dire?”

Ma il tono che ha usato in tutto questo suo monologo è stato quanto di più odioso avessi mai sentito e con tutte le frase fatte che riusciva a dire, le stesse cose trite e ritrite mi facevano salire solo rabbia, su rabbia, su rabbia. Mi sono scaldato il latte, mentre lei continuava a parlare, l’ho bevuto con i miei biscotti e lei continuava a parlare e parlare e parlare e la cosa mi faceva semplicemente arrabbiare.

Poi me ne sono andato in camera, con la voglia di perpararmi per una doccia, ma lei mi ha bloccato, di forza, per non farmi andare in bagno. E da lì, non ricordo neanche più come, è scoppiata a piangere, un pianto disperato, che mi ha fatto accaponare la pelle e stare male anche io. L’ho accompagnata sul letto e l’unica cosa che mi è venuta in mente di fare è stata di prenderla, scoppiare anche io a piangere e abbracciarla, come non avevo mai fatto in vita mia. E piangeva, dicendo che era preoccupata, stava male e mi chiedeva di dirglielo, che se un’amicizia era andata troppo oltre, c’era sempre modo di tornare indietro e che mi potevano aiutare, che c’era sempre modo di cambiare, bastava parlare, che ci sono tante brave ragazze in giro e anche se si trova quella giusta a 30 o 40 anni non è un problema, che non ha senso che io vada a lavorare perchè la mia è l’età dello studio e che loro non hanno bisogno dei miei soldi. E non ricordo se gliel’ho detto in quel momento o dopo, quando ha tirato fuori qualcuno dei suoi cavoli di pregiudizi che mi hanno fatto completamente perdere le staffe e scappare in bagno a lavarmi.

Uscito fuori dal bagno, mi sistemo, mi vesto per uscire, per andare da qualcuno che non potevo resistere a casa. Ma non potevo. Aveva nascosto il mio mazzo di chiavi, quelle della macchina e aveva chiuso a chiave tutte le porte. E mi sono arrabbiato ancora di più, pretendendo di riavere indietro le mie chiavi e la mia libertà di uscire. Perchè nel frattempo, mi aveva accusato di averla quasi uccisa quando stava partorendo, di farla soffrire ancora più di quanto soffriva per la nonna e ad un certo punto si era messa pure a pregare, ad alta voce, la nonna, perchè le desse la forza di andare avanti. E inzialmente ho perso le staffe, perchè volevo uscire, non potevo sopportare tutte queste cose. Sei malato, non sei normale, cosa dirà la gente, ti sei scelto una strada difficile, ti porterà solo dolore. E volevo uscire, andarmene, correre da qualcuno con cui potessi sfogarmi. E lei mi aveva chiuso in casa. E come un pazzo, volevo uscire. Esagerando, forse, col senno di poi, le ho ricordato che sono maggiorenne e mi sta trattenendo con la forza. E che o mi faceva uscire, o avrei chiamato la polizia. E così si è calmata un attimo, ma poi ha ripreso, sempre le stesse cose. E io man mano minacciavo, salendo le scale, verso il telefono. Tanto che ero arrivato anche a comporre il numero. Solo che a quel punto la rabbia si era leggermente dissipata e ho potuto farle notare che non era tenendo bloccata una persona che poteva instaurare il dialogo. E se era un dialogo, quello che voleva, doveva ridarmi le chiavi e darmi la possibilità, se volevo, di uscire da casa, casa nostra, casa mia. E poi ancora, tranquilli, i pianti, gli abbracci. E continuava ad insistere sulla malattia. E in quel momento non ci ho visto più. A parte il fatto che non aveva ancora mantenuto la parola data di ridarmi le chiavi e riaprire la porta, continuava ad insistere. Preoccupata della strada di perdizione, la malattia, la gente cosa dirà, il dolore della scelta. Tentare di farle capire che non era una scelta ma che ero così e punto ed era solo da accettare e che anche io avevo impiegato tempo a lavorare su di me, a capirmi, ad accettarmi. E non capiva, non voleva capire, non voleva neanche provarci. E di nuovo la rabbia saliva, assieme alla mia incapacità di spiegarglielo e così l’idea di chiamare e prendere l’appuntamento con la dottoressa da cui ero andato (dopo sue insistenze) un anno fa. E allora voleva sapere lei cosa mi aveva detto, se anche la dottoressa diceva che ero veramente così. E la rabbia saliva, perchè non riuscivo a farle capire che non è una scelta, non è qualcosa che mi dovevano dire gli altri o che posso scegliere, come se fosse la maglietta che si sceglie la mattina. E la rabbia saliva, perchè non mi voleva fare uscire. Non voleva capire che non ero in grado di spiegarle molto, il perchè, il per come, se ce l’ho nel dna o è colpa loro. E così, come un pazzo, uscendo dalla stanza e salendo e scendendo le scale, mi è venuto solo da urlare che sono anni che l’organizzazione mondiale della sanità non la riconosce come una malattia e che, cavolo, non sono malato e fa male, molto male, sentirsi dire dalla propria madre che si è stati quasi causa della sua morte al momento del parto, fa male sentire tirare in ballo la povera Nonna, fa male tutto il resto.

Poi, non si sa come, ha capito che era meglio aprire la porta, ridarmi le mie chiavi. E voleva sapere dove andavo, perchè voleva essere sicura di dove andavo. E che questa sera, dopo il lavoro, sarei dovuto tornare a casa, subito, senza giri strani. Perchè, domani mattina, dobbiamo portare la macchina dal meccanico.

Motociclisti. Hoavutotantapaura.

Stavo tornando a casa, distrutto da una giornata niente male a lavoro.

Calmo, tranquillo per la mia strada. Strada che, nello specifico, passando nel sottopasso di Scarampo/Serra, si restringeva ad una corsia (quella di sinistra), visto che (dice il Byb) lo stanno imbiancando.

Fatto sta che me ne esco calmo e tranquillo dal sottopasso ristretto ad una corsia, andandando alla mia bella e tranquilla andatura cittadina post lavoro e metto la freccia per tornare sulla prima corsia di destra, visto che – si sa – di notte ci sono pazzi che vogliono sfrecciare.

Finalmente non arriva più nessuno e inizio a spostarmi sulla destra e – come me – noto che vogliono fare la stessa manovra anche altre macchine più indietro. Esco quasi dalla mia corsia e compare, all’improvviso, nell’angolino dello specchietto, un motocicista. Arriva da un’altra strada che si immette su quella che stavo percorrendo ora. Entra nella corsia di accelerazione, supera una macchina sulla prima corsia, entra sulla seconda e continua a spostarsi sempre più verso sinistra, per entrare sulla terza corsia, ad elevata velocità.. e sembra quasi che mi punta. Do’ una brusca sterzata (ed una frenata) per evitarlo e lui incurante continua alla sua velocità e lo vedo scomparire, lì davanti a me, zizgagando.

E io, in realtà, ho avuto paura.

Paura di uno che arriva a velocità folle da un’altra strada, si è buttato sulla “mia” strada, ha superato tutto e tutti e mi ha tagliato la strada (3 corsie + quella di accelerazione bruciate in un secondo). Ho avuto paura di uno che percorre a quella folle velocità una strada pericolosa, piena di buche, in piena notte. Ho avuto paura di non riuscire ad evitarlo e che lui si schiantasse contro la mia portiera. E mi sono immaginato la moto sbalzata chissà dove, lui per terra, la telefonata al 118, l’ambulanza, i lampeggianti della polizia, il traffico bloccato. Ma ho avuto paura anche di controsterzare troppo e finire contro la barriera in cemento e prendere il volo. E farmi male, distrugger la macchina. Così, per nulla, per colpa sua.

E non lo capisco il desiderio di velocità, di infrangere i limiti, di mettere a rischio la propria vita (cavoli, vai in giro su due ruote, mica in un cassone con quattro!) e degli altri. Sì, anche degli altri. Perchè, credo, se uno ti viene addosso e si fa male, tanto male, e non è neanche colpa tua, certamente non stai bene, ti senti un po’ la causa di tutto. O almeno, io mi sentirei così.

E così per tutto il viaggio ho avuto questa bruttissima sensazione addosso. Sì, ok, va bene, non è successo nulla. Me se non mi fossi accorto che arrivava? Se non avessi sterzato e frenato in tempo? Se mi prendeva in pieno?

Ci sono eventi, attimi che mi rimangono impressi.

E continuo a pensarci, ragionarci.

Forse troppo.

E a starci male.

Forse troppo.

 

PS:  Uscita obbligatoria al casello di Arluno. Autostrada ristretta da 3 corsie ad una sola. E un pazzo, il più furbo di tutti, che arriva a tutta velocità sulla seconda corsia. Vuole rientrare, visto che nel giro di pochissimo la corsia diventa unica. Peccato che sull’unica corsia disponibile c’ero io. Con la mia solita andatura tranquilla da profonda notte, su un’autostrada letteralmente tempestata di lavori in corso, da anni. E così mi vede, capisce che non può rientrare e tira dritto, tirando su tutti i segnalini “restringi corsia” ed evitando per un soffio una ruspa lì parcheggiata. Senza abbassare minimamente la velocità. Altro spavento. Ma continuo con la mia solita velocità. Esco col telepass. E indovinate lui dov’è? E’ fermo al casello, in coda, per pagare in contanti.

Non ho parole. Ma quanto è stupida e scellerata la gente?